Il gioco delle perle di vetro, breve riassunto
Siamo nel 2200 a Castalia (da castità), uno stato assolutamente spirtuale, gerarchicamente organizzato, dove si svolge un gioco nel quale i “giocatori” cercano un linguaggio segreto e universale che racchiuda in sè tutte le arti e le scienze. È il gioco della bellezza? Dell’armonia umana?Potrebbe esere dato che in realtà il testo è scritto in uno dei momenti più bui della storia umana (un momento al quale ci stiamo di nuovo avvicinando).
Inizialmente i giovani coltivano alcune arti e scienze come la musica, l’astronomia, la matematica rinunciando al matrimonio e a ogni profitto. Gli stranieri possono soggiornare e poi ritornare di nuovo nel loro mondo materiale.
Joseph Knecht (Knecht = servitore) diventa Magister, maestro del gioco delle perle di vetro dopo un lungo itinerario iniziatico e grazie a padre Jacob apprende anche il valore della storia. Ma proprio studiando la storia ritiene che Castalia e il gioco delle perle siano destinate a scomparire, di fronte all’antagonismo con il mondo esterno, un antagonismo che contrappone la spiritualità alla vita reale. Quindi Knecht decide di abbandonare le sue funzioni per diventare precettore del figlio di un suo amico.
Un giorno il giovane desidera celebrare l’alba danzando e e poi tuffandosi nel lago, invitando Knecht a seguirlo anche come gesto di sfida. Knecht si tuffa a sua volta ma, colto dal freddo, annega.
Il perfetto ma statico mondo di Castalia non può avere il sopravvento sul mutevole e imprevedibile mondo esterno, la soluzione sembra essere quella di portare la saggezza di Castalia nel mondo stesso, ma in realtà anche questa soluzione sembra impossibile: Knecht muore per seguire il suo stesso allievo, cioé per compiere fino alla fine la sua missione di educatore, fino ad assumersi dei rischi personali, che nel mondo protetto di Castalia non sarebbero esistiti.
Ciò che ottiene può essere considerato poca cosa oppure un tesore, dipende dal lettore stesso. Poca cosa: la riflessione del giovane seduto sulla riva opposta, che vede il Magister annegare. Un tesoro: l’inizio di una consaopevolezza che cambierà la vita del giovane che vede il suo Magister annegare.
La conclusione del romanzo
La villetta che infine raggiunsero sorgeva in riva a un laghetto alpino nascosto fra rocce grigie dalle quali si distingueva a malapena. A quella vista Knecht sentl il rigore, anzi la tetraggine di quell'architettura adattata all'asprezza della montagna, ma poco dopo un gaio sorriso lo rischiarò tutto poiché sulla soglia gli era apparsa la figura d'un giovane in giubba colorata e calzoni corti: non poteva essere altri che Tito, il suo allievo; e quantunque non fosse stato seriamente in pensiero per il fuggiasco, respirò sollevato e riconoscente. Se Tito era lì e salutava il Maestro dalla soglia di casa, tutto andava per il verso buono e parecchie complicazioni sparivano, delle quali durante il viaggio aveva pur dovuto considerare la possibilità.» (…)
Il ragazzo era in aperto conflitto con suo padre, al quale rimproverava anche di aver trascurato e lasciato cadere lo stile della famiglia per una vita meno nobile e dignitosa. Per questo era attratto da Knecth:
«Il giovane, che stimava molto le tendenze e tradizioni patrizie della sua casa e non perdonava a suo padre di averle abbandonate, incontrava ora per la prima volta la nobiltà spirituale e acquisita, quella potenza che in condizioni felici può talvolta nel tempo di un'unica vita umana, scavalcando una lunga serie di antenati e generazioni, fare il miracolo di trasformare un fanciullo plebeo in un nobile di alto lignaggio.» (…)
Ma, accanto all’attrazione c’è anche la diffidenza, la repuslsione. Dunque la mattina seguente al loro primo incontro nella tenuta di campagna in riva al lago in assenza del padre, Tito invita Knecth ad alzarsi prima dell’alba.
«Tito arrivò in mutandine da bagno, strinse la mano al Magister e indicando le rocce di fronte esclamò: « Lei arriva al momento buono. Tra poco sorgerà il sole. Che bellezza quassù! ». Knecht approvò con un ` cenno cortese. Sapeva che Tito si alzava presto, faceva il corridore, il lottatore, il podista, non fosse altro per protestare contro il contegno fiacco, tutt'altro che soldatesco, e contro il tenore di vita di suo padre, allo stesso modo che, per le medesime ragioni, aborriva il vino. Queste consuetudini gli facevano assumere talvolta la posa del naturista e dello spregiatore dello spirito (in tutti i Designori era innata la tendenza all'esagerazione), ma Knecht le apprezzava ed era pronto a sfruttare anche il cameratismo sportivo per conquistare e domare il focoso giovinetto. Era un mezzo come tanti altri e neanche uno dei più importanti. (…)
È molto interessante notare come il Magister prenda sul serio il proprio ruolo e si ponga, fin dal primo incontro, l’obiettivo di conquistare la fiducia del ragazzo come condizione indispensabile per poter svolgere il suo compito. È questa la questione centrale ed è anche la questione centrale di ogni «Magister», passato, contenporaneo o futuro.
Intanto il ragazzo si esibisce nel senso che porta, attraverso la danza che compie in onore della Natura, tutta la sua filosofia al Magister. Il ragazzo è forza, corpo, fisico, benessere, ed è integrato nella Natura stessa. Questo è il suo mondo, un mondo che, educatamente, «sbatte» però in faccia al Magister come una sorta di provocazione dal significato inequivocabile, che Knecth capirà molto bene.
«Il ragazzo, compreso di quella solenne bellezza [della natura, ndr] e della propria forza e gioventù, si stirò con ritmici movimenti delle braccia ai quali segui tutto il corpo per festeggiare con una danza entusiastica il sorgere del giorno ed esprimere il proprio intimo accordo con il flusso radioso degli elementi intorno a lui. I suoi passi si volgevano con giocondo omaggio verso il sole vittorioso, se ne ritraevano con rispetto, le braccia tese stringevano al suo cuore i monti, il lago e il cielo, in ginocchío venerava la madre terra, allargando le mani salutava le acque del lago e offriva sé stesso, la sua giovinezza, la sua libertà, il fiammeggiante senso vitale alle potenze superiori come un dono festoso.
La luce solare era riflessa dalle sue spalle brune, gli occhi erano socchiusi contro il bagliore, il giovane volto aveva il rigido atteggiamento di una maschera, in un'espressione di serietà esaltata e quasi fanatica.»
Se la forza del corpo (Tito) si contrappone alla forza dello spirito (Knecht), il Magister stesso però, con la sua spiritualità, coglie benissimo il messaggio della Natura e, per ragioni diverse rispetto a quelle di Tito, Knecht stesso è ammaliato dalla bellezza e dalla solennità del luogo:
«Il Magister era preso e commosso anche lui dallo spettacolo solenne del nuovo giorno in quella solitudine di rocce silenti. Ma più di quella vista lo afferrava il fatto umano che si svolgeva di fronte ai suoi occhi, la danza festosa dell'allievo che salutava il sole e il mattino, la danza che sollevava il giovane immaturo, in preda ai suoi capricci, quasi su un piano di severità sacerdotale e a lui, spettatore, rivelava istantaneamente le sue più nobili e profonde inclinazioni e doti e mete, così all'improvviso come la comparsa del sole aveva svelato e rischiarato quella fredda e tetra valle montana. Tito gli appariva ancor più forte ed egregio di quanto non l'avesse pensato fino allora, ma anche più duro, più inaccessibile, più lontano dallo spirito, più pagano. Quella danza festevole e sacrificale nell'estasi panica era più di quanto non fossero stati a suo tempo i discorsi e i versi di Plinio, poneva il giovane di parecchi gradini più in alto del padre, ma lo rendeva anche più estraneo, meno afferrabile, meno aperto all’appello.» (…)
La spiritualità e la saggezza del Magister gli consentono di afferrare completamente il significato provocatorio di quella danza «pagana» che ha il valore di una vera e propria «sfida» che Tito lancia a Knecht.
Siamo in mezzo alle montagne, alle sponde di un bellismo lago, negli anni quaranta. Ma questa è l’essenza del rapporto maetro – allievo in ogni tempo e in ogni circostanza passata, presente e futura.
Sono due mondi che si incontrano e che si devono accettare, ma per potersi accettare si devono delineare, definire, devono essere compresi come tali nelle loro specifiche caratteritiche, che non si possono annullare.
Il dialogo prevede dei corpi finiti che si parlano, non entità che si annullano o che si ignorano. E il dialogo fra Knecht e Tito è appena comincito attraverso una forma non verbale, attraverso il lingiaggio del corpo di Tito. Fino a che punto Knecht parlerà quello stesso linguaggio, in modo da poter dialogare con Tito?
Lui è il maestro, lui è l’adulto maturo e anziano, quindi è lui che si deve adattare, è lui e solo lui che deve imparare un linguaggio nuovo, il linguaggio di Tito, se vuole stabilire un dialogo. Non è Tito a dover muovere il primo passo. Il primo passo di Tito è una provocazione, ed è giusto che sia così, quello di Knecht dovrà essere quello di capire questa provocazione, di accettarla e di spostare il dialogo sul suo terreno, ma senza mai dimenticare, o mettere da parte, la nuova lingua che sta imparando, quella di Tito.
«Knecht osservò commosso il mirabile spettacolo in cui l'alunno si trasformava e rivelava davanti ai suoi sguardi e gli si presentava nuovo ed estraneo come un suo pari.» (…)
E, come si vede, Knecht non giudica il ragazzo, non esprime valutazioni di alcun tipo ma, anzi, ne è ammirato.
La provocazione di Tito potrebbe nche allontanare il Magister e invece il Magister è davvero «maestro», ammira qualcosa che non gli appartiene, ma che appartiene indiscutibilmente al ragazzo in modo sincero. Il maestro osserva con ammirazione e partecipazione il mondo del ragazzo, così differente dal suo, così radicalmente opposto e lontano. Ma è quello che un maestro deve fare: ammirare il linguaggio sconosciuto del suo allievo e impararlo per poter dialogare con lui. Questo è quello che fa un «vero» maestro. Perciò, in definitiva, lo ama. Il Magister ama il suo allievo, tutti i suoi allievi.
«Nuotando molto velocemente » esclamò con puerile zelo e precipitazione «possiamo toccare l’altra sponda prima che vi arrivi il sole. » Aveva appena pronunciato queste parole, appena lanciato l'invito a sfidare l'astro del giorno, allorché con un gran balzo si tuffò nel lago, quasi, o per spavalderia o per imbarazzo, non vedesse l'ora di allontanarsi e di far dimenticare con attivo fervore la precedente scena solenne. Dall'acqua si levò uno spruzzo che si richiuse sopra di lui; dopo alcuni attimi riapparvero la testa, le spalle e le braccia che si allontanarono rapidamente, visibili sopra lo specchio verdazzurro.»
Il ragazzo si tuffa, lancia la sfida, non tanto alla Natura quanto al magister stesso. Ma Knecht non è pronto ad affrontarla poiché, come qualsisi sfida ben lanciata, arriva inaspettata ed egli non ha la predisposzione d’animo per tuffarsi nel lago gelato, e non ha, molto probabilmente, neppure il fisico per affrontare il terribile sforzo:
«Quando era uscito di casa, Knecht non aveva avuto alcuna intenzione di fare il bagno e di nuotare perché aveva troppo freddo e dopo il malessere notturno non si sentiva molto bene.»
Eppure non si può tirare indietro, è lui il Magister, è lui che si deve «abbassare» al compito duro e difficile, contro la sua stessa natura. Però, attenzione! non è un dovere, è qualcosa che il maestro sente in modo naturale, qualcosa che gli piace, che lo eccita: accettare la fida, stare insieme al suo allievo, non lasciarlo da solo, dargli un segno importante della presenza del maestro.
È istinto, non è ragiome, è l’istitnto del vero maestro, quell’insigth che possiede e che lo guida nel rapporto con i suoi allievi.
«Ora, al tepore del sole, eccitato da ciò che aveva visto, invitato amichevolmente dall'allievo, pensò che il rischio non era tanto grave. Soprattutto però temeva che quanto l'ora mattutina aveva avviato e promesso potesse svanire e andare perduto, se avesse abbandonato il giovane e l'avesse deluso rifiutando con la fredda ragionevolezza dell'adulto un saggio di energia. Lo sconsigliava, è vero, il senso di incertezza e di debolezza che gli aveva lasciato il rapido viaggio in montagna, ma forse quel malessere lo si poteva superare proprio con un atto di forza e con un gesto impetuoso. L'appello fu più forte del monito, la volontà più energica dell’istinto.»
«L’appello fu più forte del monito, la volontà più energica dell’istinto.» In questo claim c’è tutta l’essenza del maestro. Non può «abbandoare» il giovane e non lo può «deludere». Non lo può fare un vero maestro, non lo farà mai. Perciò egli respinge quella parte dell’istinto che lo trattiene perché la sua coscienza di Magister lo spinge a compiere la sua missione con piena consapevolezza (ragione).
Non è un calcolo razionale, ma è la coscienza del maestro, la sua padronanza nel comprendere fino in fondo la dialettica della relazione maestro – allievo. E quindi si, Knecht accoglie la sfida e si tuffa nel lago anche se il suo corpo e tutto in lui lo avvertono del pericolo.
Egli si butta nel lago e il lago lo «agguanta»:
«Toltosi subito il leggero accappatoio, respirò profondamente e si buttò in acqua nello stesso punto in cui si era tuffato l’allievo. Il lago, alimentato dalle acque dei ghiacciai e adatto, anche in piena estate, soltanto agli allenati, lo agguantò col gelo di una tagliente ostilità. Egli si aspettava un gran brivido, ma non quel freddo così glaciale che lo avvolse come un mare di fiamme e dopo una prima vampata incominciò a penetrargli nelle ossa. Dopo il salto era riaffiorato subito e aveva veduto davanti a sé Tito che nuotava con grande vantaggio, ma, sentendosi aspramente incalzato dal gelo ostile, s'illuse di lottare ancora per diminuire la distanza, per raggiungere la meta della gara, per il rispetto e l'amicizia, per l'anima del ragazzo, quando invece lottava già con la morte che gli aveva dato lo sgambetto e lo stringeva fra le braccia. Facendo appello a tutte le forze vi resistette fintanto che il cuore continuò a battere.»
Knecht non può «abbandoare» il giovane e non lo può «deludere». Non lo può fare un vero maestro, non lo farà mai. Perciò egli respinge quella parte dell’istinto che lo trattiene perché la sua coscienza di Magister lo spinge a compiere la sua missione con piena consapevolezza (ragione).
Non è un calcolo razionale, ma è la coscienza del maestro, la sua padronanza nel comprendere fino in fondo la dialettica della relazione maestro – allievo. E quindi si, Knecht accoglie la sfida e si tuffa nel lago anche se il suo corpo e tutto in lui lo avvertono del pericolo.
Egli si butta e il lago lo «agguanta».
È il loro incontro fondamentale, quello da cui tutto deve partire ed è anche il l’incontro finale.
Tutto finisce nel momento stesso in cui inizia.
Quindi è un fallimento?
No, forse Kencht ha dato tutto in questo inizio e questo inizio vale tutto un percorso educativo, che non si è compiuto in anni ma in poche ore. Come un concentrato di magia incredibilemnte potente racchiuso in una sola parola, così tutto il percoso che si sarebbe prospettato con Tito inizia e si conclude nello stesso momento.
«Il giovane nuotatore si era voltato più volte e aveva visto con soddisfazione che il Magister lo aveva seguito nell'acqua. Ora guardò di nuovo e non vedendolo s'impensierì, chiamò, tornò indietro in tutta fretta per assisterlo. Non lo trovò più e continuò a cercare nuotando e tuffandosi finché il freddo pungente gli tolse le forze.
Stordito e senza fiato toccò terra finalmente, vide l'accappatoio sulla riva, lo raccolse e prese a strofinarsi macchinalmente le membra finché la pelle intirizzita riacquistò calore. Sedette poi al sole come inebetito, fissando l'acqua, il cui verde azzurro lo guardava, ora, vuoto e maligno, e quando, scomparsa la debolezza fisica, riebbe la coscienza e lo spavento di ciò che era accaduto, restò perplesso e in preda alla più profonda tristezza .
Ahimè, pensò atterrito, ecco che della sua morte sono io il colpevole! E soltanto allora, quando non v'era più da far valere la superbia né da opporre alcuna resistenza, sentì nella pena del cuore spaventato quanto avesse già preso a voler bene a quell'uomo. E mentre, nonostante le obiezioni, si sentiva colpevole della morte del Maestro, lo prese con un sacro brivido il presentimento che quella colpa avrebbe trasformato lui stesso e la sua vita e preteso da lui cose molto più grandi di quante fino allora egli avesse mai pretese da sé stesso.»
Rileggiamo: «sentì nella pena del cuore spaventato quanto avesse già preso a voler bene a quell’uomo» e la vita avrebbe riservato a Tito «cose molto più grandi di quante fino allora egli avesse mai pretese da sé stesso.»
È questo il compito che ogni persona che lavora con un’altra in una relazione maestro – allievo di qualsiasi natura, deve assolvere. Anche a costo della sua stessa vita ci ha detto Hermann Hesse nel 1943, cioè nel pieno della barbarie umana, una barbarie, come quella odierna, che non tiene in alcun conto della vita, delle relazioni umane, fondate sull’affettività, sui sentimenti.
Vale invece la pena di morire per un atto di comprensione, di umanità, di edcuazione, di compassione in favore dell’altro, per assolvere a un compito nobile, che elevando l’altro, eleva l’umanità stessa offrendole una prospettiva per il futuro, una prospettiva che può essere giocata solo ed esclusivamente sul piano di sentimenti incondizionati.
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