Il linguaggio è un fuoco d’artificio
Come ci hanno insegnato #hemingway e i grandi romanzieri americani, la scrittura (il racconto), non è mai la copia della realtà anche se la riproduce “fedelmente”. Anche in questo caso nessun giovane parla, fa e dice le cose che Fante mette in bocca al giovane Arturo Bandini. Il #linguaggio di Arturo Bandini è un fuoco d’artificio, una vera esplosione linguistica e lessicale, immaginaria e creativa di cui il lettore non può avere un’esperienza reale, nel senso che difficilmente potrebbe conoscere soggetti che parlano e si comportano come #artutobandini.
Allora ecco la domanda che #autori e #storyteller necessariamente si pongono: “Come mai questo linguaggio ci appare così incredibilmente vero e naturale?” “Non dovremmo avere difficoltà a seguire questa storia piena di assurdità?”
La risposta è abbastanza comprensibile. Riguarda direttamente quello che Umberto Eco (cito a memoria, sono in treno e non ho voglia di cercare la citazione esatta fra i mie appunti nascosti chissà dove nel MacBook), chiamava la creazione di mondi nella produzione letteraria.
Gli autori partoriscono universi
In sostanza si tratta del fatto che un autore non scrive solo una storia con tutti i suoi bravi meccanismi, ma partorisce un vero e proprio mondo immaginario. Un perfetto universo.
Questo mondo è qualcosa che ci cattura e ci tiene al suo interno solo se:
1. Tutte le sue componenti sono ben legate fra loro.
2. Sono coerenti.
3. Sono equilibrate.
Queste tre caratteristiche rendono possibile la sostanza di qualsiasi mondo immaginario. Questo complesso architettonico è un vero e proprio edificio che può essere vasto come si vuole o piccolo come uno sgabuzzino, ma quale che sia la sua dimensione o la sua collocazione, non disorienterà mai il lettore o lo spettatore cinematografico. Egli si sentirà sempre a casa perché riconoscerà di trovarsi sempre nello stesso ambiente per quante svolte possa improvvisare e stanze esplorare.
Il racconto può essere pieno di suspense, può svolgersi lentamente o freneticamente, può suscitare ilarità improvvisa o un pianto desolato, ma colpirà e sorprenderà il lettore perché sarà la storia a spiazzarlo, non il mondo in cui la storia è collocata.
Non parlo dell’ambientazione geografica, parlo proprio del mood, del concept, dell’universo fatto di linguaggi, comportamenti e stili che offrono a quella storia ambientata a Los Angeles o a Berlino, un universo di segni decifrabili e traducibili, per quanto assurdi e fantastici possano apparire. Questo è l’universo che l’autore dovrebbe essere in grado di creare. Se non è capace di fare questo non è un autore, né grande né piccolo, non può far parte della schiera degli autori perché al massimo avrà imparato a mettere insieme qualche schema come insegnano nei corsi di “scrittura creativa”.
Da questo punto di vista il film di Ermanno Olmi (1931 – 2018), L’albero degli zoccoli (1978), è esattamente identico al romanzo di Fante La strada per Los Angeles o al romanzo di Philip Dick (1928 – 1982), Anche gli Androidi sognano pecore elettriche (1968). In tutti questi casi (che ho scelto perché molto distanti tra loro), abbiamo infatti un mondo di cui il lettore non suppone l’esistenza, perché non esiste nella realtà, nel quale deve entrare per riconoscerlo come esistente e lo deve vivere affinché il mondo viva. Una volta entrato i questi universo lo spettatore lo deve vivere come se fosse un personaggio del mondo stesso, lo deve “respirare”. Perciò questo universo non deve presentare falle, buchi, interruzioni, diseguaglianze, anomalie. Vi ricordate nel primo Matrix (Andy e Larry Wachowski, 1999), quando la visione del gatto (un’anomalia), porta a scoprire che la realtà è una finzione? Al pubblico accade la stessa cosa quando si accorge che l’universo che gli viene presentato mostra un “gatto”, cioè un’anomalia: capisce che è una finzione e quindi si toglie da quel mondo, non ne fa più parte., esce dal romanzo o dal film.
Non ci sono soluzioni tecniche per creare un universo coerente e credibile. Non ci sono manuali da applicare. C’è una sensibilità da mettere in gioco, insieme all’esperienza e a una varietà di possibilità.
Il linguaggio è il mondo
Quello che Fante decide di fare in La strada per Los Angeles è di lavorare sul linguaggio. In effetti oltre a essere un perfetto conoscitore e un grande appassionato di lingua fin da bambino, sceglie di lavorare su un terreno tipico adolescenziale che è proprio quello del linguaggio.
Qui Fante crea un vero e proprio codice linguistico. Una specie di lingua non solo parlata ma anche fatta di comportamenti, di stile, di carattere, di gesti, di pensieri. Una lingua dotata perfino di una logica tutta sua, che tiene insieme tutto e che rappresenta l’idioma immaginario in cui si parla un linguaggio speciale, quello di Arturo Bandini. L’universo creato da Fante è composto unicamente da Arturo Bandini, la lingua di Arturo la comprende solo Arturo, tutti gli altri personaggi come la sorella, la madre, i colleghi di lavoro, ne sono al di fuori. Il lettore entra nel mondo di Bandini e rimane solo con lui in questo mondo. Anch’egli percepisce come Arturo gli altri soggetti come estranei, proprio a partire dal linguaggio. Non ci si può intendere se si parlano lingue diverse che non si conoscono.
È proprio la coerenza di questo mondo e della sua lingua a trasmettere una forza straordinaria al romanzo. Per questo motivo il romanzo, con tutto il suo universo, appare “vero” e Arturo Bandini, nella sua follia e nelle sue esagerazioni assolutamente fuori dalle righe, ci sembra un giovane come ce ne possono essere tanti.
Dobbiamo quindi cercare di capire i tratti essenziali di Arturo Bandini per poter comprendere meglio la “verità” di questo personaggio.
Il lato eroico di Arturo Bandini
Prendiamo il lato eroico di Arturo.
Egli è un vero e proprio eroe e come tale si comporta. Però, attenzione! Arturo Bandoni non è un eroe nel senso del ruolo che l’eroe assume in una storia. Non è un eroe nel senso del character cinematografico dei personaggi, o delle funzioni di Propp. In altri termini: non è l’eroe che salva le persone da un uragano. La questione fondamentale è che Arturo Bandini non è un eroe riconosciuto come tale dalla società o da una sua parte, egli è un eroe per se stesso. Arturo è l’ideale di Arturo, la sua stessa ispirazione. Infatti non ci sono eventi che lo spingono ad assumere il ruolo dell’eroe. La sua è una funzione, non un ruolo costruito nella realtà. Egli è un eroe perché è funzionale a se stesso.
Ecco come Arturo segue e si ispira per le sue stesse idee che diventano ideali eroici per lui e contribuiscono a formare l’aspetto epico della narrazione.
Non potevo trovare lavoro come portiere di notte in questa città portuale per il semplice fatto che nessun albergo, in questa città portuale, faceva uso di portieri di notte. Una deduzione matematica: piuttosto semplice. Tornai su per le scale fino all’appartamento e mi sedetti.
– Perché correvi a quel modo? – chiese mia madre.
– Per allenarmi. Le gambe. (John fante, La strada per Los Angeles, Einaudi 2005, trad. Francesca Durante, ePub, tutte le citazioni sono tratte a questa versione).
Egli possiede tutte le caratteristiche dell’eroe: è libero, coraggioso, solitario, coerente, spregiudicato, ma nessuno riconosce il suo eroismo perché il suo eroismo non ha una funzione sociale, né è riconosciuto dalla società che non vede neppure che Arturo Bandini esiste davvero in quanto Arturo Bandini in carne e ossa. Arturo Bandini non è un eroe per gli altri, è un eroe per sé.
Per esempio egli è eroe perfino quando viene licenziato per una sua colpa. Arturo ricostruisce l’evento come eroico pur essendo in torto marcio perché ha rubato dieci dollari dalla cassa della drogheria presso la quale lavorava. Il suo datore di lavoro viene però da lui rimpicciolito, ridimensionato completamente, finché ad assumere la parte di chi ha torto perché Arturo Bandini lo mette a confronto con Nietzche, l’ideale dell’ideale dell’io di Arturo Bandini stesso, il suo strumento per giudicare e paragonare il mondo. Bandini mette sempre in ridicolo i suoi capi “ignoranti” (i nemici dell’eroe), che non sanno di essere ridicoli e neppure ignoranti perché sono tali solo agli occhi di Bandini e al loro raffronto con Nietzsche, l’eroe dell’eroe. L’atto di eroismo di Bandini è chiaro solo a Bandini. Non esiste neppure un pubblico di altri lavoratori o di colleghi o di amici che potrebbero riconoscere l’eroismo delle sue gesta o che lo potrebbero condividere attraverso il racconto di Bandini stesso perché Arturo Bandini non racconta nulla a nessuno. Semplicemente, non ha amici, non ha contatti, è solo con se stesso. Non si può neanche dire che sia un eroe solitario western che sistema da solo le cose al villaggio sopraffatto dai banditi, perché l’eroe solitario è colui che agisce da solo, ma in una comunità, che è riconosciuto come eroe da una massa di personaggi o di comparse presenti nella storia.
Ecco un brano dell’episodio del licenziamento. Mentre il suo datore di lavoro è disperatamente alla ricerca di Arturo Bandini perché il suo negozio è pieno di clienti, Arturo Bandini è in bagno che legge tranquillamente Nietzsche e quando si scoprirà del furto egli ribalterà semplicemente la situazione:
“Trovai poi un lavoro da commesso di drogheria. L’uomo che gestiva il negozio era un italiano con la pancia come un paniere. (…) Ogni giorno alle tre c’era una gran ressa di clienti. Troppo lavoro per un uomo solo. Tony Romero lavorava duro ma barcollava, il collo gli galleggiava nel sudore e la gente se ne andava perché non poteva perder tempo ad aspettare. Tony non riusciva a trovarmi. Si affrettò verso il retro del negozio e picchiò sulla porta del bagno. Stavo leggendo Nietzsche, stavo memorizzando un lungo brano sulla voluttà. Sentii i colpi sulla porta ma li ignorai. Tony Romero mise una cassetta per le uova davanti alla porta e ci montò sopra. La sua grossa mascella si sporse dall’alto e, guardando in basso, mi vide dall’altra parte.
– Mannaggia Jesu Christi! – strillò. – Vieni fuori!
Gli dissi che sarei venuto fuori immediatamente. Andò via ruggendo. Ma non fui licenziato per quello. (…)
[Sono spariti 10 dollari dalla cassa, il proprietario e Arturo Bandini li cercano senza successo, poi il droghiere chiede ad Arturo una sigaretta]
Dalla tasca di dietro estrassi il pacchetto, e con esso uscí la banconota da dieci dollari. L’avevo ficcata dentro il pacchetto delle sigarette, ma era scivolata fuori. Cadde sul pavimento in mezzo a noi due. Tony schiacciò la sua matita fino a farla spezzare. La faccia gli divenne paonazza, le guance sbuffavano. Indietreggiò con il collo e mi sputò in faccia.
– Vattene via, sorcio schifoso!
– Va bene, – dissi. – Come vuole lei.
Presi il libro di Nietzsche da sotto il banco e mi avviai alla porta. Nietzsche! Che ne sapeva lui di Friedrich Nietzsche? Appallottolò la banconota da dieci dollari e me la tirò. – La tua paga di tre giorni, ladro! – Feci spallucce. Nietzsche in un posto del genere!
– Me ne vado, – dissi. – Non si ecciti.
– Fuori di qui!
Distava da me una quindicina di metri.
– Senta, – dissi, – sono troppo contento di andarmene. Sono stufo della sua bavosa, elefantiaca ipocrisia. È una settimana che ho voglia di abbandonare questo lavoro balordo. Dunque vada pure dritto all’inferno, impostore di un terrone!” (idem).
Il rapporto di Arturo con il mondo è dunque tutto speciale. Il mondo è una funzione del suo gioco, è uno strumento molto flessibile nelle sue mani, che si piega completamente ai suoi desideri. E così Arturo riesce a governare la realtà. Egli crea un gioco in cui il mondo è uno strumento e lui il protagonista del gioco. In questo caso non può vincere che Arturo Bandini, sempre lui, dato che è l’unico a sapere di giocare e a conoscere le regole del gioco.
Nei passi che riporto qui sotto tenta di essere assunto alla Ford, immagina un’amicizia stretta con il presidente Franklin Delano Roosevelt, crede di essere un filosofo – reporter inviato sulla costa Ovest.
Quando arrivai alla fabbrica rimasi lí in mezzo agli altri. Si muovevano come un grumo compatto davanti a una pensilina verde. Facce tese, facce fredde. Poi venne fuori un uomo. Niente lavoro per oggi, amici. E tuttavia un posto o due saltavano fuori, se sapevi pitturare, se ne capivi qualcosa di trasmissioni, se avevi esperienza, se avevi lavorato nello stabilimento di Detroit.
Ma non c’era lavoro per Arturo Bandini. Lo capii a prima vista, e non gli avrei consentito di rifiutarmi. Ero divertito. Che spettacolo: questa scena di uomini davanti a una pensilina mi divertiva. Sono qui per una ragione speciale, signore: una missione riservata, per dir cosí, sto semplicemente raccogliendo dati per il mio rapporto. Mi manda il presidente degli Stati Uniti d’America. Franklin Delano Roosevelt, è lui che mi manda. Frank e io siamo fatti cosí! Fammi sapere come vanno le cose sulla costa del Pacifico, Arturo; mandami cifre e resoconti di prima mano; fammi sapere con le tue parole che cosa pensano le masse da quelle parti.
Dunque ero uno spettatore. La vita è un palcoscenico. E qua è un dramma, Franklin, vecchio mio, vecchio amico, vecchia spingarda; qua, nel cuore degli uomini, siamo al dramma piú crudo. Lo notificherò immediatamente alla Casa Bianca. Un telegramma in codice per Franklin. Frank: inquietudine sulla costa del Pacifico. Consiglio inviare ventimila uomini armati. Popolazione terrorizzata. Situazione perigliosa. Stabilimento Ford in rovina. Me ne occuperò di persona. Qua la mia parola è legge. Il tuo vecchio compare, Arturo.
C’era un vecchio appoggiato al muro. Il naso gli gocciolava fino alla punta del mento, ma stava là beato e non se ne rendeva conto. Mi divertiva. Assai divertente questo vecchio. Devo ricordarmi di descriverlo a Franklin, lui ama gli aneddoti. Caro Frank: saresti morto se avessi visto questo vecchio! Gli piacerà, a Franklin: me lo vedo che ridacchia mentre la racconta ai membri del suo gabinetto. Dite, ragazzi, avete sentito l’ultima del mio amico Arturo laggiú sulla costa del Pacifico? Girellavo su e giú, io, studioso del genere umano, un filosofo, passando davanti a quel vecchio e al suo naso ribelle. Il filosofo che viene dall’ovest contemplala commedia umana.
La poesia dell’Eroe per sè
Abbiamo detto che nessuno riconosce Arturo Bandini come eroe.
Certo, nessuno lo riconosce come tale all’interno della storia, ma i lettori riconoscono l’eroismo di Arturo Bandini. Riconoscono il coraggio, il tentativo di uscire dagli schemi, di rompere con le convenzioni, di essere anti-istituzionale. Egli dunque non è eroe per altre persone all’interno della storia ma per chi legge la storia. Il suo eroismo è costruito per il lettore. In questo modo non è un classico eroe della narrativa popolare o del cinema, che necessariamente si consuma perché il suo ruolo termina con la conclusione dell’azione eroica stessa. L’eroismo di Bandini è un simbolo, è completamente autoreferenziale, non è legato a un oggetto o a eventi che si esauriscono quando l’azione finisce (salvare la terra, eliminare i cattivi, scoprire un antidoto…). Per questo è poetico, perché il messaggio non si consuma nell’azione, non finisce mai, il messaggio è il personaggio. Anche la struttura del linguaggio quindi deve essere poetica, nel senso di essere strutturata in modo autoreferenziale, come la lingua di un mondo che esprime il suo proprio codice di decifrazione. Questo eroismo non è dentro il sistema ma fuori e anche se il contorno non è epico la posizione di Arturo Bandini è epica per se stessa e il romanzo stesso è un’opera epica. Egli vive una serie di avventure immaginarie che solo lui (insieme ai lettori), conosce. Assume la parte di un inviato speciale del presidente della repubblica, scrive un romanzo come se fosse un grande autore, segue una donna che non sa di essere seguita, intraprende una guerra con i granchi ignari di essere in guerra con Arturo Bandini e così via. Ma nessuna di queste avventure che conferisce una veste epica alla storia è riconosciuta come tale dai personaggi che ne sono protagonisti insieme ad Arturo Bandini. Uno psicologo potrebbe parlare di Delio. Arturo banditi sta delirando. No, è la società il delirio. Una società marcia, immobile, bloccata, sprofondata nel pregiudizio e nell’ignavia, una società istituzionale le cui istituzioni sono il simbolo della sua stessa decadenza. La società è il vero delirio. Il delirio di Arturo Bandini è l’atto eroico con il quale Arturo Bandini restituisce la vita a se stesso strappandola al mondo circostante ignaro di tutto.
Avviene tutto in un mondo chiuso e autoreferenziale che si sviluppa nella testa di Bandini ed è sganciato da circostanze contestuali e reali. Questo universo coinvolge i lettori di fronte ai quali egli è un vero eroe. Perciò questo eroismo è un simbolo poetico che deve essere interpretato sulla base della sua stessa struttura e perciò è sempre vivo, non muore mai, è senza tempo, è sempre attuale perché è legato a una condizione psicologica e non a una vicenda narrativa.
L’origine dell’eroismo di Bandini
Non essendo costruito nella realtà Arturo Bandini non assume le caratteristiche tipiche dell’eroe della letteratura popolare e del cinema. L’eroe popolare normalmente diventa tale perché le circostanze lo spingono in quella direzione, mettono in luce la predisposizione del personaggio a essere eroe ed egli accetta la sfida entrando nell’azione assumendo questo nuovo ruolo. L’eroe da personaggio “normale” si trasforma: si veste, prende le armi, indossa la sua maschera, cambia il proprio atteggiamento. Da “normale” diventa eroe, appunto. Questo schema classico non esiste per Arturo Bandini. Egli non si deve trasformare in nulla perché è già eroe, eroe e delirio contro il delirio del mondo. Egli è già quello che deve essere, contiene in se stesso tutte le caratteristiche necessarie.
Abbiamo detto che tutti gli eventi della storia sono il frutto della sua libera interpretazione e che nessuna circostanza lo spinge a salvare l’umanità. L’eroismo di Bandini è un fatto intrinseco al personaggio stesso. Egli è mosso dal desiderio, dall’aspirazione a essere eroe, un’aspirazione che non conosce vincoli e che perciò piace ai lettori, che vengono catturati nel suo mondo immaginario. Egli è eroe in virtù del suo desiderio di esserlo. Arturo Bandini si pone al di fuori della società, piega il mondo alle sue necessità, non è lui a piegarsi. Questa “vittoria” nei confronti del mondo è già iscritta nelle premesse perché non avviene nel mondo reale ma nella sua testa: la forza del suo desiderio e del suo immaginario lo elevano a eroe vincente agli occhi dei lettori prima ancora che lui abbia agito.
In queste pagine Arturo Bandini, dopo aver perso l’ennesimo lavoro, si deve confrontare con suo zio che è stato invitato dalla madre a parlare con Arturo per metterlo sulla giusta strada. Si tratta di un esempio di come Arturo Bandini assume la veste dell’eroe, anche in un semplice rapporto con lo zio, che viene collocato da Arturo nel suo stesso gioco con il mondo. Il dialogo si svolge su piani divergenti, che non si possono incontrare. C’è una incomunicabilità assoluta. Chi ne esce vincente è Arturo Bandini.
Notate che Arturo Bandini spinge lo zio a mentire, a rimodellare la realtà sulla base dei suoi stessi desideri, proprio come fa Bandini stesso. Infatti lo zio è costretto a spiegare alla madre di avere sistemato Arturo, che Arturo si è pentito e si metterà sulla buona strada. Cosa assolutamente falsa. È il delirio dello zio.
La vittoria dell’eroe Bandini è sancita dalla capitolazione dello zio, battaglia che si è svolta senza che lo zio ne fosse lontanamente consapevole!
Cacciai di tasca il taccuino nuovo e ne sfogliai le pagine con il pollice. Le sfogliai cosí rapidamente che non poté leggere nulla, ma vide che c’era scritto qualcosa. – Questi sono appunti, – dissi. – Notazioni d’atmosfera. Sto scrivendo un dialogo socratico sul porto di Los Angeles a partire dai giorni della conquista spagnola.
– Vediamo, – disse.
– Niente da fare. Non prima della pubblicazione.
– La pubblicazione! Ma che vai dicendo?
Rimisi in tasca il taccuino. Puzzava di granchio.
– Perché non ti svegli e fai l’uomo? – disse. – Tuo padre lassú ne sarebbe contento.
– Lassú dove?
– Nell’aldilà.
Me l’aspettavo.
– Non c’è nessun aldilà, – dissi. – L’ipotesi del paradiso non è che banale propaganda messa in giro dai ricchi per illudere i poveri. Io metto in discussione l’immortalità dell’anima. Nient’altro che il persistente inganno di un genere umano coi paraocchi. Io rigetto con la “massima chiarezza l’ipotesi Dio. La religione è l’oppio dei popoli. Le chiese dovrebbero essere trasformate in ospedali e fabbriche. Tutto ciò che siamo o che pure speriamo di essere lo dobbiamo al diavolo e ai suoi pomi proibiti. Nella Bibbia ci sono 78 000 contraddizioni. È questa la parola di Dio? No! Io rifiuto Dio! Lo denuncio con imprecazioni furiose e implacabili! Io ammetto un universo senza Dio. Sono un monista!
– Tu sei pazzo, – disse. – Sei completamente fuori di testa.
– Tu non mi capisci, – sorrisi, – ma va bene lo stesso. È per me prevedibile l’incomprensione; sicuro, mi aspetto le peggiori persecuzioni lungo la mia strada. Va bene cosí.
Svuotò la pipa e mi agitò il dito sotto il naso. – Quello che devi fare è smetterla di leggere tutti questi libri dannati, smettere di rubare, diventare uomo, e andare a lavorare.
Spezzai la mia sigaretta. – Libri! – dissi. – E che ne sai tu dei libri? Tu! Un ignorantone, uno Scemus Americanus, un asino, un villano zoticone fornito dell’intelligenza di una puzzola!
Rimase fermo a riempire la pipa. Io non dicevo nulla perché era il suo turno. Mi studiò per un poco pensando a qualcosa.
– Forse ho un lavoro per te, – disse “– Di che si tratta?
– Non lo so ancora. Vedrai da te.
– Bisogna che si attagli al mio talento. Non dimenticare che sono uno scrittore. Ho avuto una metamorfosi.
– Non mi interessa che cosa ti è successo. È lavoro. Forse alle industrie del pesce.
– Non ne so niente delle industrie del pesce.
– Bene, – disse. – Meno ne sai e meglio è. Ti servono soltanto una schiena forte e una testa debole. Le hai entrambe.
– Questo lavoro non mi interessa, – gli dissi. – Dovrei piuttosto scrivere. Prosa.
– Prosa, prosa… Che è questa prosa?
– Sei un babbione conformista. Non la conoscerai mai, la buona prosa, in tutta la tua vita.
– Mi sa che dovrei riempirti di botte.
– Provaci.
– Piccolo bastardo.
– Bifolco americano.
“Si alzò e lasciò il tavolo con occhi di fuoco. Andò quindi nella stanza a fianco a parlare con mamma e Mona, dicendo loro che ci eravamo intesi e che d’ora in avanti avrei voltato pagina. Diede loro un po’ di soldi e disse a mia madre di non preoccuparsi di niente. Io andai sulla porta e feci un cenno di buonasera quando uscí. Mia madre e Mona mi guardavano negli occhi. Avevano pensato che sarei uscito dalla cucina con le lacrime a rigarmi il viso. Mia madre mi mise le mani sulle spalle. Dolce e consolatoria, pensava che zio Frank mi avesse umiliato.
– Ha ferito i tuoi sentimenti, – disse. – Vero, povero il mio ragazzo?
Mi tolsi quelle mani di dosso.
– Chi? – dissi. – Quel cretino? Ma certo che no, che diavolo!
– Hai l’aria di uno che ha pianto.
Entrai in camera da letto e mi guardai gli occhi allo specchio. Erano asciutti come al solito. Mia madre mi seguí e cominciò a passarci un fazzoletto. Ma che caspita, pensai.
– Posso chiederti che stai facendo? – dissi.
– Povero ragazzo! Va tutto bene. Sei imbarazzato. Ti capisco. Mamma capisce tutto.
– Ma io non sto piangendo!
Delusa, si allontanò.
(Fante, John. “La strada per Los Angeles (Einaudi. Stile libero) (Italian Edition)”. iBooks).
La funzione dell’ironia
A questo punto il rischio principale della storia è che Arturo Bandini possa essere visto come un perfetto narcisista e che quindi il lettore perda di interesse nella storia. Invece il romanzo tiene. Per quale motivo? Perché la scrittura è ironica. Fante libera il personaggio dal peso suo delirio narcisista attraverso l’ironia.
Questa ironia viene presentata anche grazie al gioco a cui abbiamo accennato. Infatti tutto ciò che Arturo compie è un gioco. Egli tratta il mondo stesso come se fosse un suo gioco personale. Che si tratti di granchi o di persone, queste sono sempre parte di un gioco che conosce solo Bandini, del quale fissa le regole o le improvvisa e al quale gioca solo lui. Il suo pubblico, ancora una volta, sono i lettori.
Sparai ai granchi per tutto quel pomeriggio, fino a che la spalla su cui appoggiavo il fucile cominciò a dolermi e cominciarono a bruciarmi gli occhi per il troppo prendere la mira. Ero Bandini il Dittatore, l’Uomo d’Acciaio di Grancovia. E questo non era altro che un nuovo Bagno di Sangue per il bene della Patria. Ci avevano provato a depormi, quei granchi dannati: avevano avuto l’ardire di cercare di fomentare una rivoluzione, e io mi stavo vendicando. Ma pensa! C’era di che infuriarsi. Questi granchi maledetti da Dio avevano addirittura messo in dubbio il potere di Bandini il Superuomo! Che cosa gli era preso, che erano diventati cosí presuntuosi? Be’, avrebbero avuto una lezione indimenticabile. E questo sarebbe stato il loro ultimo tentativo di rivoluzione, perdio. Digrignai i denti: Ma pensa: una nazione di granchi in rivolta. Che ardire! Dio, ero fuori di me.
Caricai e ricaricai finché la spalla mi fece male e mi venne una vescica sul dito del grilletto. Ne uccisi piú di cinquecento e ne ferii il doppio. Animosi, venivano all’attacco folli di rabbia e di paura mentre i morti e i feriti uscivano dai ranghi. Era un assedio. Mi si accalcavano intorno. “Altri ne venivano fuori dal mare, altri ancora da dietro le rocce, muovendo in gran numero sul pianoro di sassi verso la morte, troneggiante su un’alta roccia fuori dalla loro portata.
Radunai un po’ di feriti in una pozza, convocai un consulto militare, poi decisi di affidarli alla code marziale. Uno alla volta, li trascinai fuori dalla pozza, li sistemai davanti alla canna del fucile e premetti il grilletto. Ci fu un granchio dai colori brillanti e pieno di vita, che mi fece l’impressione di una donna: di sicuro era una principessa fra quei rinnegati, una granchia ardimentosa seriamente piagata, con una gamba in meno e un braccio penosamente penzoloni. Mi spezzò il cuore. Ebbi una nuova consultazione e decisi che, a causa della pressante urgenza della situazione, non ci sarebbe stata alcuna discriminazione fra i sessi. Anche la principessa doveva morire. Era spiacevole, ma si doveva fare.
Col cuore triste diedi l’annuncio, e là, in mezzo ai morti e ai morenti, innalzai una preghiera a Dio, chiedendogli di perdonarmi per questo, per il piú bestiale dei crimini di un superuomo: l’esecuzione di una donna. Eppure, dopotutto, il dovere era il dovere, il vecchio ordine andava preservato, la rivoluzione andava schiacciata, il regime doveva continuare, e i rinnegati dovevano perire. Per qualche tempo parlai in privato con la principessa, estendendo a lei le scuse formali del governo Bandini e, attenendomi al suo ultimo desiderio – voleva che le permettessi di ascoltare La Paloma – gliela fischiettai con gran sentimento, tanto che, verso la fine, mi venivano le lacrime. Puntai il fucile contro il suo bel viso e premetti il grilletto. Morí all’istante, gloriosamente, in una fiammeggiante miscela di guscio e di sangue giallastro.
Il gioco a cui gioca Arturo Bandini è quello del superuomo. Egli cita Nietzche senza ovviamente conoscerlo. Arturo non è il superuomo che oltrepassa i limiti dello status umano, come intendeva il filosofo. Bandini supera l’intera realtà umana, non solo la natura imperfetta dell’umanità. Egli è al di là della realtà stessa. Anzi, la realtà è solo uno strumento di gioco di questo nuovo superuomo.
Il gioco ha però anche un’altra funzione perché il gioco per definizione è libero. L’eroe del mondo narrativo tradizionale, quello che salva l’umanità, non gioca e non è libero perché deve compiere la sua azione molto seriamente. Azione che risulta perfino prevedibile. Il suo ruolo si risolve nell’assumere il vincolo di una responsabilità e nel portarla a termine. Per Arturo Bandini le cose sono radicalmente differenti. Egli gioca, non segue nessun obiettivo (tranne quello generico di fare un domani fortuna a Los Angeles secondo una variante del sogno americano), perché lui gioca con il mondo.
Arturo Bandini non deve salvare il mondo ma se stesso attraverso il mondo
Non è il mondo che Bandini deve salvare, ma se stesso attraverso il mondo. Perciò è eroe di se stesso: il mondo diventa lo strumento con il quale allestire il gioco dell’eroe che si autosalva. Il mondo entra nell’universo di Arturo Bandini.
Il gioco di Bandini è questo: egli gioca a fare l’eroe perché solo nel gioco e non in un mondo a lui estraneo, può essere eroe. L’eroe non sarà lo strumento di un mondo da salvare, ma salverà se stesso perché piega il mondo intero al proprio gioco trasformarono in una vicenda epica per se stesso.
Eccoci quindi alla fine di questo universo, tenuto insieme dal linguaggio, caratterizzato dall’ironia e percorso come un gioco. Un mondo che esiste solo nella testa di Arturo Bandini e… in quella di qualsiasi lettore che vi entra e si accomoda proprio come Arturo Bandini avrebbe desiderato facesse.
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