Perchè un “teatro dell’assurdo?”
Potremmo dire che il teatro dell’assurdo mette in scena l’assurdità del vivere in una forma altrettanto assurda. Ma come può la vita essere assurda? Paradossalmente allora dovrebbe essere meno assurda la morte? I dadaisti avevano già risposto a questa domanda. Avevano denunciato l’ipocrisia della prima guerra mondiale, avevano preso posizione contro le falsità e le ipocrisie del nazismo, oppure prendevano in giro gli atteggiamenti mondani (recarsi a teatro per mostrarsi in pubblico, coprire con affermazioni e comportamenti moralisti le proprie perversioni e i propri vizi).
È meglio che nessuno si renda conto dell’assurdo contemporaneo
A mio parere il teatro dell’assurdo rappresenta la continuazione, nelle condizioni del secondo dopoguerra (dopo il 1945) e di oggi dell’esperienza dadaista. E dico anche che è di enorme attualità (2022). Oggi potrebbe essere definito assurdo tutto ciò che pur essendo futile, senza importanza, elemento di distrazione per le masse, cibo mediatico e social per il popolo, appare invece come determinante e fondamentale.
Nell’immobilismo di Vladimiro e Estragone (Aspettando Godot, Samuel Beckett, 1906 – 1989) possiamo vedere la metafora del Titanic, una società che viaggia su “amari abissi” (Baudelaire), senza accorgersi della barbarie e della decadenza verso la quale scivola.
E intanto il mondo si popola di conversazioni puramente futili e senza importanza e su contenti falsi e completamente inventati (La cantatrice calva, La lezione, Eugène Jonesco, 1906 – 1989), per coprire l’assurdo e grottesco dramma del mondo.
L’assurdo oggi è straordinariamente attuale proprio perché ci è evitato in tutti modi di doverlo affrontare. La cultura di massa per le masse può avere tutte le caratteristiche che si vuole: dalle più brutali, violente, sessiste, razziste, pornografiche al loro “contrario” buoniste, educate, moraliste, politicamente corrette, paternaliste, tranne una: svelare l’assurdo, mostrarne l’esistenza.
Il motivo è banale: se il lato nascosto della vita è assurdo, quello che appare come reale diventerebbe superfluo, incosistente, privo di importanza e perciò andrebbe rovesciato, come nella metafora iniziale di Matrix.
L’assurdo è rivoluzionario mentre il reale – finzione è la maschera conservatrice e clownesca che ne cela l’esistenza.
Perciò abbiamo questa “comunicazione di massa” nella quale tutti si illudono di poter intervenire, mentre sono le vittime predestinate del business della finzione (culturale, politica, economica).
Leggiamo due brani tratti da Aspettando Godot e La lezione per chiarire questi concetti.
Aspettando Godot (Samuel Beckett)
È proprio questo pezzo teatrale del 1952 che dà il via al teatro dell’assurdo. Da allora mille interpretazioni, mille letture hanno riportato sulla scena l’inquietante dialogo dei due vagabondi Vladimiro ed Estragone che aspettano Godot in un appuntamento del quale non conoscono né il giorno né l’ora. La scena è scarna c’è solo un alberello. Del resto neppure Godot si sa bene chi sia.
Il dialogo è piuttosto surreale. Spesso si sente la battuta: Andiamo? – Non si può – Perché? – Aspettiamo Godot – Già, è vero.
Passa Lucky, un vecchio carico di bagagli, accompagnato da Pozzo, il suo padrone. Poi si avvicina a loro un ragazzo che annuncia che il signor Godot non verrà quella sera ma l’indomani. L’indomani è il secondo atto, ci sono di nuovo Pozzo e Lucky che intanto sono diventati l’uno cieco e l’altro muto. Pozzo vorrebbe sapere che ora è e dove si trova: ma non riceve risposta. Cala il buio, e si ripresenta il ragazzo, che ripete il medesimo annuncio: il signor Godot non verrà quella sera, ma il giorno seguente…
Il dialogo finale fra Vladimiro ed Estragone (Aspettando Godot)
Ecco la conclusione del dramma:
Silenzio.
ESTRAGONE È da tanto che dormivo?
VLADIMIRO Non so.
Silenzio.
ESTRAGONE Dove andiamo?
VLADIMIRO Non lontano.
ESTRAGONE No, no, andiamocene lontano di qui!
VLADIMIRO Non si può.
ESTRAGONE Perché?
VLADIMIRO Bisogna tornare domani.
ESTRAGONE A far che?
VLADIMIRO Ad aspettare Godot.
ESTRAGONE Già, è vero. (Pausa). Non è venuto?
VLADIMIRO No.
ESTRAGONE E ormai è troppo tardi.
VLADIMIRO Si, è notte.
ESTRAGONE E se lo lasciassimo perdere? (Pausa). Se lo lasciassimo perdere?
VLADIMIRO Ci punirebbe. (Silenzio. Guarda l’albero) Soltanto l’albero vive.
ESTRAGONE (guardando l’albero) Che cos’è?
VLADIMIRO E l’albero.
ESTRAGONE Volevo dire di che genere?
VLADIMIRO Non lo so. Un salice.
ESTRAGONE Andiamo a vedere. (Trascina Vladimiro verso l’albero. Lo guardano immobili. Silenzio). E se c’impiccassimo?
VLADIMIRO Con cosa?
ESTRAGONE Non ce l’hai un pezzo di corda?
VLADIMIRO No.
ESTRAGONE Allora non si può.
VLADIMIRO Andiamocene.
ESTRAGONE Aspetta, c’è la mia cintola.
VLADIMIRO E troppo corta.
ESTRAGONE Mi tirerai per le gambe.
VLADIMIRO E chi tirerà le mie?
ESTRAGONE È vero.
VLADIMIRO Fa’ vedere lo stesso. (Estragone si slaccia la corda che gli regge i pantaloni. Questi, che sono larghissimi, gli si afflosciano sulle caviglie. Tutti e due guardano la corda). In teoria dovrebbe bastare. Ma sarà solida? ESTRAGONE Adesso vediamo. Tieni.
Ciascuno dei due prende un capo della corda e tira. La corda si rompe facendoli quasi cadere. VLADIMIRO Non val niente. Silenzio.
ESTRAGONE Dicevi che dobbiamo tornare domani? VLADIMIRO SL
ESTRAGONE Allora ci procureremo una buona corda. VLADIMIRO Giusto.
Silenzio.
ESTRAGONE Didi.
VLADIMIRO SL
ESTRAGONE Non posso piú andare avanti cosí.
VLADIMIRO Sono cose che si dicono.
ESTRAGONE Se provassimo a lasciarci? Forse le cose andrebbero meglio. VLADIMIRO C’impiccheremo domani. (Pausa). A meno che Godot non venga. ESTRAGONE E se viene?
VLADIMIRO Saremo salvati. (Vladimiro si toglie il cappello — che è quello di Lucky — ci guarda dentro, ci passa la mano, lo scuote, lo rimette in testa).
ESTRAGONE Allora andiamo?
VLADIMIRO I pantaloni.
ESTRAGONE Come?
VLADIMIRO I pantaloni.
ESTRAGONE Vuoi i miei pantaloni?
VLADIMIRO Tirati su i pantaloni.
ESTRAGONE Già, è vero. (Si tira su i pantaloni. Silenzio). VLADIMIRO Allora andiamo?
ESTRAGONE Andiamo.
Non si muovono.( Testo in Corriere Spettacolo, sezione copioni: http://copioni.corrierespettacolo.it/wp-content/uploads/2016/12/BECKETT%20Samuel__Aspettando%20Godot__null__null__Unavailable__2a.pdf )
Chi è Godot?
E così Vladimiro ed Estragone continuano ad aspettare, anzi cercano di suicidarsi ma non hanno gli strumenti per portare a termine il loro proposito, così decidono di rimandare anche questo a domani e si chiude definitivamente il sipario.
Se Godot è la vita, ci si chiede che senso abbia. Se Godot è un’aspettativa di miglioramento ci si chiede quale società lo potrà mai garantire. Se Godot è l’amore ci si chiede quanto dura, che forma prenda in una società che rende tutto effimero. Se Godot è la bomba atomica ci si chiede se la si deve aspettare ineluttabilmente, se non ci sia nulla da fare… Godot è uno strumento di riflessione, è tutto quello che lo spettatore vuole che sia.
Perciò è uno strumento critico su quell’assurdità che non si vorrebbe svelare.
La lezione (Eugène Jonesco)
Nella Lezione un’allieva si presenta a un professore. L’allieva è spavalda e vorrebbe essere preparata per gli esami che la porterebbero addirittura a insegnare tutte le materie a un non ben identificato “Politecnico”. Il professore, inizialmente gentile e remissivo, invece è piuttosto egocentrico e maniacale e desidera solo inculcare nozioni nella testa dell’allieva. Nel corso del pezzo teatrale i ruoli si invertono, l’allieva diventa remissiva e spaventata, accusa mal di denti e insofferenza, il professore diventa arrogante e ossessivo fino a che non uccide l’allieva. Poi tutto finisce e ricomincia con l’attesa di una nuova studentessa. La governante del professore, che lo aveva messo in guardia dal compiere atti inconsulti, si rassegna e torna nuovamente ai suoi compiti.
Silenzio.(Si alza, passeggia per la stanza, le mani dietro la schiena; di tanto in tanto, si ferma, in mezzo alla stanza o accanto all’allieva e accompagna le parole con un gesto della mano senza accalorarsi; l’allieva lo segue con gli occhi ed incontra, a tratti, una certa difficoltà a seguirlo, in quanto essa deve voltare molto la testa; una o due volte, no di più, essa si volta completamente). Bisogna dunque sapere, signorina, che lo spagnolo è la lingua madre da cui sono nate tutte le lingue neo- spagnole, fra cui lo spagnolo, il latino, l’italiano, il francese, il portoghese, il rumeno, il sardo, lo spagnolo e il neo- spagnolo, e anche, per certi aspetti, il turco stesso, benché più vicino al greco, fatto d’altronde perfettamente logico, in quanto la Turchia è vicina alla Grecia e la Grecia più prossima alla Turchia di quanto non lo siamo noi due: questa non è altro che la dimostrazione di una legga linguistica molto importante, secondo la quale: geografia e filologia sono sorelle gemelle. Può prendere nota, signorina.
L’ALLIEVA : (con voce spenta) Sì, professore.
IL PROFESSORE : Ciò che distingue le lingue neo- spagnole tra loro e i loro idiomi dagli altri gruppi di lingue austriache e neo- austriache o asburgiche, come pure dai gruppi esperantista, elvetico, monegasco, svizzero andorrano, oppure ancora dai gruppi di lingue diplomatiche e tecniche, dico, è la loro rassomiglianza impressionante, la quale fa sì che a malapena possano essere distinte l’una dall’altra, parlo delle lingue neo- spagnole tra loro, le quali ad ogni modo si può pervenire a distinguere i loro caratteri distintivi, prova assolutamente irrefutabile della straordinaria rassomiglianza che rende incontestabile la loro origine comune, e che, al contempo, le differenzia profondamente, in virtù di quei tratti distintivi di cui ho parlato.
L’ALLIEVA : Ooooh. Sìììììì, professore.
IL PROFESSORE : Non indugiamo però sui concetti generali….
L’ALLIEVA : (dispiaciuta, sedotta) Oh, professore….
IL PROFESSORE : Queste cose han l’aria d’interessarla. Tanto meglio, tanto meglio. L’ALLIEVA : Oh, sì, professore…
IL PROFESSORE : Non si preoccupi, signorina. Ci ritorneremo più tardi…a meno che non ci si torni mai più. Chi potrebbe dirlo?
L’ALLIEVA : (incantata, nonostante tutto) Oh, sì, professore.
IL PROFESSORE : Ogni lingua, signorina, badi bene e se ne ricordi fino all’ora della sua morte….
L’ALLIEVA : Oh, sì, professore fino all’ora della mia morte…Sì, professore….
IL PROFESSORE :…e questo è un altro principio fondamentale, ogni lingua non è insomma che un linguaggio, vale a dire che essa si compone di suoni, o…. L’ALLIEVA : Fonemi…
IL PROFESSORE : Mi ha tolto la parola di bocca. Non sfoggi però il suo sapere. Ascolti, piuttosto.
L’ALLIEVA : Bene, professore. Sì, professore.
IL PROFESSORE : I suoni, signorina, devono essere acchiappati al volo per le ali, affinché non cadano nelle orecchie dei sordi. Di conseguenza, quando lei decide di articolare, è consigliabile, nella misura del possibile, di alzare al massimo il collo e il mento, di sollevarsi sulla punta dei piedi, guardi, così, vede?….
L’ALLIEVA : Sì, professore.
IL PROFESSORE : Stia zitta, lei. Resti seduta, non mi interrompa…E di emettere i suoni molto forti e con tutta la forza dei polmoni, associata a quella delle corde vocali. In questo modo, faccia attenzione:«Lapilla», «Eureka», «Trafalgar», «papì», «papà». Così facendo, i suoni gonfi d’aria calda più leggera dell’aria circostante volteggiano, volteggiano senza più correre il rischio di cadere nelle orecchie dei sordi, che sono dei veri abissi, le tombe della sonorità. Se lei emette più suoni ad una velocità accelerata, questi si accavalleranno automaticamente gli uni sugli altri, formando perciò sillabe, parole, e, caso mai frasi, ossia raggruppamenti più o meno vasti, associazioni squisitamente irrazionali di suoni esenti da ogni significato, ma appunto per questo capaci di mantenersi senza pericolo a considerevoli altezze aeree. Cadono soltanto le parole soggette ad un significato, appesantite dal loro senso, le quali finiscono sempre per soccombere, crollare…
L’ALLIEVA :….nelle orecchie dei sordi.
IL PROFESSORE : Evidentemente, però non mi interrompa…nella peggiore delle confusioni…O per scoppiare come palloni. Così, dunque, signorina…(l’allieva assume improvvisamente un aspetto sofferente) Che cosa le succede adesso?
L’ALLIEVA : Ho mal di denti, professore.
IL PROFESSORE : Non importa. Per così poco non ci fermeremo. Proseguiamo. L’ALLIEVA : (che ha l’aria di soffrire sempre più) Sì, professore.
IL PROFESSORE : Richiamo di sfuggita la sua attenzione sulle consonanti che cambiano natura negli incontri. Le F diventano in questi casi delle V, le D delle T, le G delle K, e viceversa, come negli esempi che segnalo: tre ore, i bambini, il galletto al vino, l’era nuova, ecco la notte.
L’ALLIEVA : Ho mal di denti.
IL PROFESSORE : Proseguiamo.
L’ALLIEVA : Sì.
IL PROFESSORE : Riassumiamo: per imparare a pronunciare occorrono anni e anni. Grazie alla scienza, noi possiamo riuscire in pochi minuti. Per fare dunque uscire le parole, i suoni e tutto il resto, sappia che non c’è altro modo che espellere aria dai polmoni, poi farla passare delicatamente, sì che le sfiori, sulle corde vocali, le quali, subitamente come arpe o fronde sotto il vento, fremono, s’agitano, vibrano, vibrano, o grattano, o soffiano, o stropicciano, o zufolano, zufolano mettendo in movimento ugola, lingua, palato, denti….
L’ALLIEVA : Ho mal di denti.Testo in Corriere Spettacolo, sezione copioni: http://copioni.corrierespettacolo.it/wp-content/uploads/2016/12/IONESCO%20Eugene__La%20lezione__null__U(1)-D(2)__Dramma__1a.pdf
Che cosa insegna esattamente il professore, di che cosa parla?
Non si tratta di un rapporto fra insegnante e allievo. Il professore infatti inventa completamente qualsiasi contenuto a suo piacere che inculca in qualche modo nell’allieva la cui sofferenza diventa anche fisica e alla fine viene ammazzata dal professore.
Se il professore è la metafora dei social media ne sveliamo tutta la loro arroganza, presunzione, falsità e invenzione che uccide letteralmente il pubblico fagocitandolo nel suo stesso sistema. Se il professore è uno strumento della comunicazione di massa, un palinsesto, un talk show, un quotidiano, un influencer di YouTube, di nuovo sveliamo tutta l’assurdità di una pretesa comunicazione che inventa letteralmente i suoi contenuti ai quali i follower si devono adeguare e con i quali si devono nutrire. Se il professore è un uomo politico… lascio a voi svelarne l’assurdo…
Assurdità
Il teatro dell’assurdo ci fa riflettere su comportamenti, situazioni e fatti che si verificano di continuo nella nostra esistenza ma dei quali noi non cogliamo il lato assurdo, stravagante, irrazionale semplicemente perché viene costantemente mascherato e nascosto.
Avevano ragione Samuel Becket e Eugène Jonesco all’epoca dei loro primi testi teatrali?
Certo, infatti l’assurdità è il principale aspetto che caratterizza ancora oggi la forma della nostra società. I media spazzatura, i social, i “valori” fashion, l’individualismo e il narcisismo, il rampismo sociale, la pura e semplice mistificazione, insieme a disvalori apertamente distruttivi come la guerra, la miseria e la sofferenza, perfino il rischio di un conflitto nucleare è oggi diventato una realtà che riempie i talk show.
Un corpo nudo o una medaglia al valor militare?
Negli anni sessanta il filosofo Herbert Marcuse (1898 – 1979) si poneva il problema se fosse più scandalosa la fotografia di un nudo femminile erotico o quella di un generale ricoperto delle medaglie che si è guadagnato per i massacri di cui è stato capace.
Oggi, per mascherare questa assurdità, le due cose vengono confuse insieme. Così un generale dell’esercito guida una task force medicale contro un virus, mentre capi di governo e personalità politiche in guerra si ritrovano commossi ai funerali della signora Elisabetta di Windsor.
Gli autori del teatro dell’assurdo hanno colto tutta una serie di aspetti di questo genere, contraddittori, strani, irrazionali eppure comuni e diffusi. Il teatro dell’assurdo ci costringe a riflettere su questi eventi. Il teatro dell’assurdo li isola e ce li presenta in tutta la loro assurdità ma, così facendo, mostra tutta l’assurdità della società nella quale viviamo.
Un teatro della derisione
“Il mio è un teatro della derisione” diceva Jonesco. Ed egli precisava che non sono necessari artifizi particolari o effetti speciali. Basta la semplice parola che mostri la realtà per che è realmente:
“Bisogna liberare la tensione drammatica senza bisogno di nessun intrigo, di nessun oggetto particolare”.
Bisogna abituarsi semplicemente a guardare al di là della facciata. Non è complicato. Jonesco ci diceva che il teatro dell’assurdo è fondato sul burlesco, una tipologia di compito che prende in giro aspetti concreti e reali, seri della vita, svelandone la natura. Per arrivare al pubblico illuminandolo, portandolo a deridere degli aspetti che è costretto a vivere quotidianamente, non occorre molto, è solo un gioco di sottile attenzione.
Strappare il velo: dal burlesco a tragico
“Spingere il burlesco fino al limite estremo. Poi un leggero tocco, un movimento impercettibile, e ci si ritrova in pieno tragico. È un gioco di prestigio. Il passaggio dal burlesco al tragico deve avvenire senza che il pubblico se ne accorga. E neppure, forse, gli attori, o appena, appena.” (Jonesco)
Passare dal burlesco al tragico o come diceva Pirandello dal comico alla tragedia, permette al pubblico di strappare il velo di falsità che quella stessa borghesia ipocrita cuce sulla realtà grazie ai suoi mezzi di comunicazione di massa.
L’arte non è filosofia
Molti critici hanno fatto riferimento alla filosofia esistenzialista di Jean Paul Sartre (1905 – 1980). Ma è sbagliato fare questi raffronti. Le filosofie sono speculazioni ragionate sul mondo, sulla conoscenza, sulla morale, sulla logica. La filosofia non è un’opera d’arte, che invece è caratterizzata dalla massima libertà espressiva e dal fatto che suscita diverse interpretazioni proprio perché non nasce per fornire alcuna visione del mondo precostituita, né alcuna verità.
Nelle opere del teatro dell’assurdo quindi si possono cogliere gli aspetti più diversi.
Per esempio: alla domanda “chi è Godot” non c’è una vera risposta, chiunque può dire che Godot sia qualsiasi cosa. Resta il fatto che se si aspetta qualcuno che non arriva, si entra nel campo della mancanza e della privazione, di ciò che non c’è, ma anche di una storia senza futuro: la nostra storia? Quella dove ci conducono la borghesia, il capitalismo?
Evitare di sentire la mancanza di quello che non si ha
Spesso il teatro dell’assurdo mette in luce ciò che non abbiamo, ciò che ci manca. Possiamo dire che la società nella quale viviamo ci obbliga ad accettare come normale ciò che non abbiamo? Sì! Abbiamo bisogno di pace ma la pace è una privazione così astratta che abbiamo più spesso la guerra che invece siamo condotti ad accettare tranquillamente. Non abbiamo un futuro, un lavoro stabile, una cura certa per la nostra salute? Ma non viviamo queste come privazioni perché siamo indotti ad accettare queste condizioni come normali.
Non è “assurdo” tutto questo?
Mettendo in scena le contraddizioni della società e dei suoi assurdi rapporti sociali il teatro dell’assurdo ci obbliga a considerare il lato meno appariscente delle cose.
Il teatro dell’assurdo è un invito permanente alla critica. Ogni opera del teatro dell’assurdo va vista, letta e riletta, ridiscussa: ogni volta ci saranno elementi nuovi da considerare.
In conclusione
L’assurdo non è ciò che appare davvero assurdo ma quello che non conosciamo come tale, che ci viene evitato di conoscere, perché ciò che è davvero assurdo è la “normalità”, quella normalità che dovremmo vivere senza porci troppe domande sensate.
Note
Samuel Beckett (Dublino 1906 – Parigi 1989). Si trasferisce a Parigi nel 1938, scrive in lingua francese. 1951- 1953 pubblica una trilogia: “Molloy”, “Malone muore” e “L’innominabile”, centrata su monologhi esistenziali di protagonisti infermi. “Aspettando Godot” è del 1953, nel 1957 un altro grande successo: “Finale di partita”, la storia del vecchio Hamm, paralitico e del suo servitore Clov (che invece non si può sedere) che si svolge in una stanza, dopo una catastrofe atomica. Nobel per la letteratura nel 1969.
Eugène Jonesco (Romania 1912 Francia 1989). Di padre rumeno e madre francese. Dal 1913 a Parigi fino alla separazione dei suoi (1925), poi ritorna in Romania. Nel 1937 pubblica il saggio “No!” nel quale esalta e critica separatamente i poeti rumeni costruendo ragionamenti opposti. Dal 1939 nuovamente in Francia, lavora come correttore di bozze. Si affaccia al teatro per caso, quando legge un manuale franco – inglese per principianti con tutti quei dialoghi “assurdi”. Da qui nasce “La cantatrice calva” (1950), un grande successo che si basa su una serie di dialoghi assurdi anche se apparentemente plausibili fino a che la parola stessa non ha più senso. Nel 1951 “La lezione” e poi “La sete e la fame” (1966).
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